A cura del Dr. Fabio Capone.
Con la sentenza n. 10955 del 27 maggio 2015 la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha considerato legittimo il licenziamento di un lavoratore dipendente (nel caso in specie un operaio addetto alle presse stampatrici) al quale gli veniva contestato dal suo datore di lavoro: 1) l’allontanamento dalla postazione di lavoro per una telefonata privata di circa 15 minuti che gli aveva impedito di intervenire prontamente su di una pressa, bloccata da una lamiera che era rimasta incastrata nei meccanismi; 2) il ritrovamento nel suo armadietto aziendale, nello stesso giorno, di un dispositivo elettronico (Ipad) acceso e collegato alla rete elettrica; 3) l’essersi intrattenuto, nei giorni successivi e in orari esattamente indicati, con il suo cellulare a conversare su facebook.
La Corte, infatti, ha ritenuto che l’accertamento compiuto dalla società datrice di lavoro delle conversazioni via internet intrattenute dal ricorrente con il suo cellulare nei giorni e per il tempo indicato – accertamento reso possibile attraverso la creazione da parte del responsabile del personale di un “falso profilo di donna su facebook” – si pone al di fuori del campo di applicazione dell’art. 4 della legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori) in quanto tale attività di controllo non ha avuto ad oggetto l’attività lavorativa più propriamente detta ed il suo esatto adempimento, ma era destinata a riscontrare e sanzionare un comportamento idoneo a ledere il patrimonio aziendale, sotto il profilo del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti. Si è trattato, dunque, di un controllo ex post, sollecitato dagli episodi occorsi nei giorni precedenti e cioè dal riscontro della violazione da parte del dipendente della disposizione aziendale che vieta l’uso del telefono cellulare e lo svolgimento di attività extralavorativa durante l’orario di servizio.
Inoltre, il giudice di legittimità ha precisato che la creazione del falso profilo facebook non costituisce, di per sé, violazione dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro, attenendo ad una mera modalità di accertamento dell’illecito commesso dal lavoratore, non invasiva né induttiva all’infrazione, avendo funzionato come mera occasione o sollecitazione cui il lavoratore ha prontamente e consapevolmente aderito.
Così come non costituisce altrettanta violazione la localizzazione del dipendente la quale è avvenuta in conseguenza dell’accesso a facebook da cellulare e, quindi, nella presumibile consapevolezza del lavoratore di poter essere localizzato, attraverso il sistema di rilevazione satellitare del suo cellulare. A tal proposito, proseguono gli ermellini, è principio affermato dalla giurisprudenza penale che l’attività di indagine volta a seguire i movimenti di un soggetto e a localizzarlo, controllando a distanza la sua presenza in un dato luogo ed in un determinato momento attraverso il sistema di rilevamento satellitare (GPS), costituisce una forma di pedinamento eseguita con strumenti tecnologici, non assimilabile ad attività di intercettazione prevista dall’art. 266 e seguenti c.p.p. (Cass. pen., 13 febbraio 2013, n. 21644), ma piuttosto ad un’attività investigativa atipica (Cass. pen., 27 novembre 2012, n. 48279), i cui risultati sono senz’altro utilizzabili in sede di formazione del convincimento del giudice (cfr. sul libero apprezzamento delle prove atipiche, Cass., 5 marzo 2010, n. 5440).
Ma la sentenza in parola, oltre a quanto poc’anzi descritto, riveste un particolare interesse soprattutto perché la Corte, per l’occasione, ha fornito una breve disamina dell’orientamento giurisprudenziale in materia di controllo a distanza da parte del datore di lavoro sul lavoratore dipendente.
Sul tema in questione è stato affermato, a più riprese, che l’art. 4 dello statuto dei lavoratori – che vieta le apparecchiature di controllo a distanza e subordina ad accordo con le r.s.a. o a specifiche disposizioni dell’Ispettorato del Lavoro l’installazione di quelle apparecchiature, rese necessarie da esigenze organizzative e produttive, da cui può derivare la possibilità di controllo – “fa parte di quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore” (Cass., 17 giugno 2000, n. 8250) sul presupposto – “espressamente precisato nella Relazione ministeriale – che la vigilanza sul lavoro, ancorché necessaria nell’organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione umana, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anaelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro” (Cass., n. 8250/2000, cit., principi poi ribaditi da Cass., 17 luglio 2007, n. 15892, e da Cass., 23 febbraio 2012, n. 2722).
Il potere di controllo del datore di lavoro deve, dunque, trovare un contemperamento nel diritto alla riservatezza del dipendente. Ma anche l’esigenza, pur meritevole di tutela, dello stesso datore di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti, non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore.
Benché non siano mancati precedenti di segno contrario (Cass., 3 aprile 2002, n. 4746), l’esigenza di tutela della riservatezza del lavoratore sussiste anche con riferimento ai cosiddetti “controlli difensivi”, ossia a quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela di beni estranei al rapporto stesso, ove la sorveglianza venga attuata mediante strumenti che presentino quei requisiti strutturali e quelle potenzialità lesive, la cui utilizzazione è subordinata al previo accordo con il sindacato o all’intervento dell’Ispettorato del lavoro (Cass., n. 15892/2007, cit.; v. pure Cass., 1 ottobre 2012, n. 16622). In tale ipotesi, è stato precisato che si tratta di “un controllo cd. preterintenzionale che rientra nella previsione del divieto flessibile di cui all’art. 4, comma 2” (Cass. 23 febbraio 2010, n. 4375).
Diversamente, ove il controllo sia diretto non già a verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni direttamente scaturenti dal rapporto di lavoro, ma a tutelare beni del patrimonio aziendale ovvero ad impedire la perpetrazione di comportamenti illeciti, si è fuori dallo schema normativo dell’art. 4 l. n. 300/1970.
Si è così ritenuto che l’attività di controllo sulle strutture informatiche aziendali per conoscere il testo di messaggi di posta elettronica, inviati da un dipendente bancario a soggetti cui forniva informazioni acquisite in ragione del servizio, prescinde dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa ed è, invece, diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti (poi effettivamente riscontrati) (Cass., n. 2722/2012). Così come è stata ritenuta legittima l’autorizzazione, da parte del datore di lavoro, di registrazioni video operate fuori dall’azienda da un soggetto terzo, estraneo all’impresa e ai lavoratori dipendenti della stessa, per esclusive finalità “difensive” del proprio ufficio e della documentazione in esso custodita (Cass., 28 gennaio 2011, n. 2117).
Infine, è stato precisato che le norme poste dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, artt. 2 e 3, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, delimitano la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei suoi interessi con specifiche attribuzioni nell’ambito dell’azienda (rispettivamente con poteri di polizia giudiziaria e di controllo delle prestazione lavorativa), ma non escludono il potere dell’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica o anche attraverso personale esterno – costituito in ipotesi da dipendenti di una agenzia investigativa – l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti già commesse o in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente dalle modalità del controllo, che può avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti, né il divieto di cui alla stessa L. n. 300 del 1970, art. 4, riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza (Cass. 10 luglio 2009, n. 16196).
Nell’ambito dei controlli cosiddetti “occulti”, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di affermarne la legittimità, ove gli illeciti del lavoratore non riguardino il mero inadempimento della prestazione lavorativa, ma incidano sul patrimonio aziendale (nella specie, mancata registrazione della vendita da parte dell’addetto alla cassa di un esercizio commerciale ed appropriazione delle somme incassate), non presupponendo necessariamente illeciti già commessi (Cass., 9 luglio 2008, n. 18821; Cass., 12 giugno 2002, n. 8388; v. Cass., 14 febbraio 2011, n. 3590, che ha precisato che le disposizioni dell’art. 2 dello stato dei lavoratori non precludono al datore di lavoro di ricorrere ad agenzie investigative – purché queste non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata dall’art. 3 dello statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori –, restando giustificato l’intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione; e Cass., 2 marzo 2002, n. 3039 che ha ritenuto legittimo il controllo tramite pedinamento di un informatore farmaceutico da parte del capo area; v. pure Cass., 14 luglio 2001, n. 9576, in cui si è ribadita, citando ampia giurisprudenza, la legittimità dei controlli effettuati per il tramite di normali clienti, appositamente contattati, per verificare l’eventuale appropriazione di denaro – ammanchi di cassa – da parte del personale addetto).
In questo orientamento, si pone da ultimo, Cass., 4 marzo 2014, n. 4984, che ha ritenuto legittimo il controllo svolto attraverso un’agenzia investigativa, finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio dei permessi ex lege n. 104 del 1992, ex art. 33, (suscettibile di rilevanza anche penale), non riguardando l’adempimento della prestazione lavorativa, in quanto effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa.
Da questo panorama giurisprudenziale, può trarsi il principio della tendenziale ammissibilità dei controlli difensivi “occulti”, anche ad opera di personale estraneo all’organizzazione aziendale, in quanto diretti all’accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, ferma restando la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, con le quali l’interesse del datore di lavoro al controllo ed alla difesa della organizzazione produttiva aziendale deve contemperarsi e, in ogni caso, sempre secondo i canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale.
Utilizza “facebook” durante l’orario di lavoro. Licenziato! La Cassazione dà ragione al datore di lavoro.
A cura del Dr. Fabio Capone.
Con la sentenza n. 10955 del 27 maggio 2015 la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha considerato legittimo il licenziamento di un lavoratore dipendente (nel caso in specie un operaio addetto alle presse stampatrici) al quale gli veniva contestato dal suo datore di lavoro: 1) l’allontanamento dalla postazione di lavoro per una telefonata privata di circa 15 minuti che gli aveva impedito di intervenire prontamente su di una pressa, bloccata da una lamiera che era rimasta incastrata nei meccanismi; 2) il ritrovamento nel suo armadietto aziendale, nello stesso giorno, di un dispositivo elettronico (Ipad) acceso e collegato alla rete elettrica; 3) l’essersi intrattenuto, nei giorni successivi e in orari esattamente indicati, con il suo cellulare a conversare su facebook.
La Corte, infatti, ha ritenuto che l’accertamento compiuto dalla società datrice di lavoro delle conversazioni via internet intrattenute dal ricorrente con il suo cellulare nei giorni e per il tempo indicato – accertamento reso possibile attraverso la creazione da parte del responsabile del personale di un “falso profilo di donna su facebook” – si pone al di fuori del campo di applicazione dell’art. 4 della legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori) in quanto tale attività di controllo non ha avuto ad oggetto l’attività lavorativa più propriamente detta ed il suo esatto adempimento, ma era destinata a riscontrare e sanzionare un comportamento idoneo a ledere il patrimonio aziendale, sotto il profilo del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti. Si è trattato, dunque, di un controllo ex post, sollecitato dagli episodi occorsi nei giorni precedenti e cioè dal riscontro della violazione da parte del dipendente della disposizione aziendale che vieta l’uso del telefono cellulare e lo svolgimento di attività extralavorativa durante l’orario di servizio.
Inoltre, il giudice di legittimità ha precisato che la creazione del falso profilo facebook non costituisce, di per sé, violazione dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro, attenendo ad una mera modalità di accertamento dell’illecito commesso dal lavoratore, non invasiva né induttiva all’infrazione, avendo funzionato come mera occasione o sollecitazione cui il lavoratore ha prontamente e consapevolmente aderito.
Così come non costituisce altrettanta violazione la localizzazione del dipendente la quale è avvenuta in conseguenza dell’accesso a facebook da cellulare e, quindi, nella presumibile consapevolezza del lavoratore di poter essere localizzato, attraverso il sistema di rilevazione satellitare del suo cellulare. A tal proposito, proseguono gli ermellini, è principio affermato dalla giurisprudenza penale che l’attività di indagine volta a seguire i movimenti di un soggetto e a localizzarlo, controllando a distanza la sua presenza in un dato luogo ed in un determinato momento attraverso il sistema di rilevamento satellitare (GPS), costituisce una forma di pedinamento eseguita con strumenti tecnologici, non assimilabile ad attività di intercettazione prevista dall’art. 266 e seguenti c.p.p. (Cass. pen., 13 febbraio 2013, n. 21644), ma piuttosto ad un’attività investigativa atipica (Cass. pen., 27 novembre 2012, n. 48279), i cui risultati sono senz’altro utilizzabili in sede di formazione del convincimento del giudice (cfr. sul libero apprezzamento delle prove atipiche, Cass., 5 marzo 2010, n. 5440).
Ma la sentenza in parola, oltre a quanto poc’anzi descritto, riveste un particolare interesse soprattutto perché la Corte, per l’occasione, ha fornito una breve disamina dell’orientamento giurisprudenziale in materia di controllo a distanza da parte del datore di lavoro sul lavoratore dipendente.
Sul tema in questione è stato affermato, a più riprese, che l’art. 4 dello statuto dei lavoratori – che vieta le apparecchiature di controllo a distanza e subordina ad accordo con le r.s.a. o a specifiche disposizioni dell’Ispettorato del Lavoro l’installazione di quelle apparecchiature, rese necessarie da esigenze organizzative e produttive, da cui può derivare la possibilità di controllo – “fa parte di quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore” (Cass., 17 giugno 2000, n. 8250) sul presupposto – “espressamente precisato nella Relazione ministeriale – che la vigilanza sul lavoro, ancorché necessaria nell’organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione umana, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anaelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro” (Cass., n. 8250/2000, cit., principi poi ribaditi da Cass., 17 luglio 2007, n. 15892, e da Cass., 23 febbraio 2012, n. 2722).
Il potere di controllo del datore di lavoro deve, dunque, trovare un contemperamento nel diritto alla riservatezza del dipendente. Ma anche l’esigenza, pur meritevole di tutela, dello stesso datore di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti, non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore.
Benché non siano mancati precedenti di segno contrario (Cass., 3 aprile 2002, n. 4746), l’esigenza di tutela della riservatezza del lavoratore sussiste anche con riferimento ai cosiddetti “controlli difensivi”, ossia a quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela di beni estranei al rapporto stesso, ove la sorveglianza venga attuata mediante strumenti che presentino quei requisiti strutturali e quelle potenzialità lesive, la cui utilizzazione è subordinata al previo accordo con il sindacato o all’intervento dell’Ispettorato del lavoro (Cass., n. 15892/2007, cit.; v. pure Cass., 1 ottobre 2012, n. 16622). In tale ipotesi, è stato precisato che si tratta di “un controllo cd. preterintenzionale che rientra nella previsione del divieto flessibile di cui all’art. 4, comma 2” (Cass. 23 febbraio 2010, n. 4375).
Diversamente, ove il controllo sia diretto non già a verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni direttamente scaturenti dal rapporto di lavoro, ma a tutelare beni del patrimonio aziendale ovvero ad impedire la perpetrazione di comportamenti illeciti, si è fuori dallo schema normativo dell’art. 4 l. n. 300/1970.
Si è così ritenuto che l’attività di controllo sulle strutture informatiche aziendali per conoscere il testo di messaggi di posta elettronica, inviati da un dipendente bancario a soggetti cui forniva informazioni acquisite in ragione del servizio, prescinde dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa ed è, invece, diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti (poi effettivamente riscontrati) (Cass., n. 2722/2012). Così come è stata ritenuta legittima l’autorizzazione, da parte del datore di lavoro, di registrazioni video operate fuori dall’azienda da un soggetto terzo, estraneo all’impresa e ai lavoratori dipendenti della stessa, per esclusive finalità “difensive” del proprio ufficio e della documentazione in esso custodita (Cass., 28 gennaio 2011, n. 2117).
Infine, è stato precisato che le norme poste dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, artt. 2 e 3, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, delimitano la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei suoi interessi con specifiche attribuzioni nell’ambito dell’azienda (rispettivamente con poteri di polizia giudiziaria e di controllo delle prestazione lavorativa), ma non escludono il potere dell’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica o anche attraverso personale esterno – costituito in ipotesi da dipendenti di una agenzia investigativa – l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti già commesse o in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente dalle modalità del controllo, che può avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti, né il divieto di cui alla stessa L. n. 300 del 1970, art. 4, riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza (Cass. 10 luglio 2009, n. 16196).
Nell’ambito dei controlli cosiddetti “occulti”, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di affermarne la legittimità, ove gli illeciti del lavoratore non riguardino il mero inadempimento della prestazione lavorativa, ma incidano sul patrimonio aziendale (nella specie, mancata registrazione della vendita da parte dell’addetto alla cassa di un esercizio commerciale ed appropriazione delle somme incassate), non presupponendo necessariamente illeciti già commessi (Cass., 9 luglio 2008, n. 18821; Cass., 12 giugno 2002, n. 8388; v. Cass., 14 febbraio 2011, n. 3590, che ha precisato che le disposizioni dell’art. 2 dello stato dei lavoratori non precludono al datore di lavoro di ricorrere ad agenzie investigative – purché queste non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata dall’art. 3 dello statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori –, restando giustificato l’intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione; e Cass., 2 marzo 2002, n. 3039 che ha ritenuto legittimo il controllo tramite pedinamento di un informatore farmaceutico da parte del capo area; v. pure Cass., 14 luglio 2001, n. 9576, in cui si è ribadita, citando ampia giurisprudenza, la legittimità dei controlli effettuati per il tramite di normali clienti, appositamente contattati, per verificare l’eventuale appropriazione di denaro – ammanchi di cassa – da parte del personale addetto).
In questo orientamento, si pone da ultimo, Cass., 4 marzo 2014, n. 4984, che ha ritenuto legittimo il controllo svolto attraverso un’agenzia investigativa, finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio dei permessi ex lege n. 104 del 1992, ex art. 33, (suscettibile di rilevanza anche penale), non riguardando l’adempimento della prestazione lavorativa, in quanto effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa.
Da questo panorama giurisprudenziale, può trarsi il principio della tendenziale ammissibilità dei controlli difensivi “occulti”, anche ad opera di personale estraneo all’organizzazione aziendale, in quanto diretti all’accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, ferma restando la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, con le quali l’interesse del datore di lavoro al controllo ed alla difesa della organizzazione produttiva aziendale deve contemperarsi e, in ogni caso, sempre secondo i canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale.