Parliamo di cessioni di ramo d’azienda.
Il caso è quello di una società cedente il proprio ramo di azienda che, condannata a ripristinare la funzionalità del rapporto di lavoro in capo ad un dipendente che ne ha vittoriosamente impugnato la cessione, si è rifiutata di reintegrarlo in servizio e di corrispondergli la retribuzione. Esclusa l’ipotesi di un’esecuzione “coattiva” dell’obbligo di reintegra, sostanzialmente nega-ta dalla prevalente giurisprudenza di merito e di legittimità, risulta controverso se il lavorato-re abbia comunque diritto alla retribuzione, previa messa a disposizione delle proprie energie lavorative, allorquando, ecco la complessità sotto il profilo giuridico, per esigenze di sosten-tamento personale e familiare, stante il rifiuto della cedente di reintegrarlo, continui a presta-re la propria opera per conto ed alle dipendenze della società cessionaria. In altri termini, si discute sul diritto o meno del lavoratore di percepire una “doppia” retribu-zione, l’una dalla cedente, che ha immotivatamente rifiutato la sua prestazione non reinte-grandolo e l’altra, dalla cessionaria, con cui continua a lavorare. Il Tribunale napoletano ha stabilito che: “…in essa vi è anche la condanna al ripristino della funzionalità del rapporto, che consiste nella re-instaurazione del sinallagma prestazio-ne/retribuzione. L’opponente ha messo a disposizione la propria prestazione, non accettata dall’azienda. Il mancato adempimento del ripristino della funzionalità del rapporto di lavoro oggetto di giudizio conduce alla responsabilità della…per il mancato pagamento della retribuzione, e tale responsabilità, non avendo natura risarcitoria ma retributivo-contrattuale, non trova temperamento nel criterio di compensazione del cd “aliunde per-ceptum”…”. La tesi difensiva dell’azienda cedente, infatti, si basava sulla natura risarcitoria della retribu-zione, per cui poiché il lavoratore continuava a lavorare per la cessionaria percependo rego-lare retribuzione, in applicazione del principio dell’aliunde perceptum, egli non aveva diritto a percepirne un’altra, in quanto, il “danno” legato alla mancata reintegra era “compensato” dallo stipendio che percepiva dall’altra società. Di converso, la difesa del lavoratore, eccepiva la natura retributiva dell’obbligazione, atteso che, ripristinato il rapporto giuridico-lavorativo, l’obbligo del lavoratore è quello di fornire la propria prestazione e quello del datore di lavoro di corrispondere la retribuzione. Quest’ultimo, com’ è avvenuto nel caso in esame, può si rifiutare la prestazione offerta dal lavoratore, ma non può negargli la retribuzione. In effetti, anche nelle diverse ipotesi dei licenziamenti individuali, la retribuzione ha natura risarcitoria, applicandosi il principio dell’aliunde perceptum, solo per il periodo che va dal licenziamento all’accertamento giudiziale della sua illegittimità, laddove, successivamente, ripristinato il rapporto lavorativo, l’obbligazione datoriale ha natura retributiva (Cass. Sez. lav. S. n. 21006/2005). Il principio contenuto nella sentenza in commento, ad avviso di chi scrive, assume una certa rilevanza, poiché fungerebbe da deterrente contro tentativi di difese di carattere essenzial-mente dilatorio, che ben oltre l’equo diritto alla difesa, mirino precipuamente a scoraggiare il ricorso alla Giustizia alimentando i luoghi comuni che diventano poi comuni convincimenti, quelli “dei tempi lunghi, dell’incertezza dei risultati, delle difficoltà esecutive, che rendono inutile e troppo oneroso per i lavoratori il ricorso alla Giustizia!”.