Ancora una vittoria a Napoli – Demansionamento nel settore delle telecomunicazioni – Trasferimento al DAC/CSA – Illegittimità
T.I. SPA condannata a pagare ad una lavoratrice (5° livello) il danno professionale nella misura del 50% della retribuzione mensile, ed il danno biologico per ansia e umore depresso.
Il Tribunale di Napoli, con recentissima sentenza resa in favore di una nostra assistita, si è occupato nuovamente della nota vicenda del settore DAC-CSA, già altrove e da altri definito come il “ghetto”, per l’altissima concentrazione di personale che, trasferito in tale settore, risulta essere portatore di disabilità, o fruitore di permessi ex L. 104/1992 o avere contenzioso con l’azienda.
La vicenda origina dall’improvviso trasferimento della lavoratrice, 5° livello del CCNL Telecomunicazioni, fruitrice di permessi ex L. 104/1992 e con limitazione lavorativa non potendo far uso di cuffie, da un negozio aziendale ove era addetta, appunto al DAC, settore tristemente noto tra i dipendenti Telecom per lo svolgimento di attività di bassissimo profilo professionale, meramente esecutive e ripetitive.
Ha accertato il Tribunale che “è emerso in maniera chiara che la *****, ad un certo punto della sua vita lavorativa, ha subito un arresto professionale e finanche un arretramento a mansioni il cui contenuto è vistosamente depauperato se paragonato ai margini di operatività e autonomia esecutiva con cui la stessa ha lavorato fino al trasferimento”.
Il Tribunale ha confermato il principio per cui “ Nel caso di specie, accertato il demansionamento professionale in violazione dell’art. 2103 cod. civ., si può anche desumere in via presuntiva l’esistenza del relativo danno, avente natura patrimoniale e la cui entità va qui determinata in via equitativa ( cfr Cass. n.4652/2009 e conf 19778/2014), in base agli elementi di fatto di cui si dispone all’esito dell’espletata istruttoria, relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, considerata la condotta della società che non ha tenuto in nessun conto l’anzianità di servizio e la conseguente esperienza professionale della ricorrente, assegnandola allo svolgimento di funzioni prevalentemente esecutive e sostanzialmente prive di alcun margine di autonomia, anche esecutiva. In ordine al quantum, il danno professionale può essere equitativamente parametrato al 50% della retribuzione mensile percepita“.
La ricorrente ha poi chiesto il ristoro del danno non patrimoniale e biologico per aver sofferto in ragione dell’ingiusto demansionamento di un disturbo dell’adattamento, caratterizzato da ansia e umore depresso.
Parimenti ha riconosciuto il Tribunale alla lavoratrice il danno biologico legato al disturbo dell’adattamento, accertato altresì dalla svolta Consulenza Tecnica d’Ufficio, ponendolo integralmente a carico dell’azienda trattandosi di percentuali che esulano dalla copertura INAIL.
Interessante poi notare che la sentenza in parola ha altresì riconosciuto l’ulteriore danno biologico richiesto dalla lavoratrice, legato ad una ipoacusia connessa con l’utilizzo delle cuffie di cuiper anni aveva fatto uso al 119, prima di essere spostata al settore commerciale. Anche in questo caso il danno per la percentuale accertata (3,5 %), è stato integralmente posto a carico della Telecom.
Correttamente rileva il Tribunale: “dei danni causati quindi ne risponde integralmente la società datrice di lavoro, che, per quanto riguarda in particolare il danno all’organo uditivo, pur avendo modificato le condizioni di lavoro della ****** non ha allegato, prima ancora che provato, alcuna iniziativa aziendale finalizzata, in generale per il personale interessato, al monitoraggio della sicurezza degli strumenti di lavoro ( cuffie, microtelefoni, visite specialistiche periodiche ecc) e alla prevenzione di malattie funzionalmente collegate, considerato che la ****** già dal 1998 presentava una ‘lievissima ipoacusia’ che risulta essere peggiorata nel tempo ( cfr certificato medico del *** nella prod ric e relazione CTU). A questo punto giova ricordare che l’art. 2087 c.c. impone all’imprenditore di adottare tutti i comportamenti necessari a prevenire, nelle varie fasi del lavoro, possibili incidenti e malattie, indipendentemente dalla necessità di adottare specifiche cautele previste da normative speciali in tema di prevenzione di infortuni sul lavoro e malattie professionali. L’articolo citato, pertanto, deve ritenersi una norma cardine in materia di responsabilità civile e penale del datore di lavoro, come più volte affermato dalla Corte di Cassazione, per la quale il datore di lavoro è tenuto ad osservare non solo la normativa specifica per il tipo di attività svolta, ma anche le regole di prudenza che si rendono necessarie nel caso specifico. Ne consegue che, per la previsione contrattuale di sicurezza, sulla base della quale risulta impostata la richiesta risarcitoria della ricorrente, il lavoratore è tenuto a dimostrare il danno subito ed il nesso causale tra lo stesso e il comportamento del datore di lavoro, mentre il datore di lavoro deve dimostrare di aver fatto quanto possibile per evitare il danno, ai sensi dell’art. 1218 c.c.“.
Nella quantificazione dei danni, il nostro studio aveva prospettato l’applicabilità delle Tabelle elaborate dal Tribunale di Milano per la liquidazione del danno biologico, ed anche il Tribunale ha ritenuto poi di aderire a quella giurisprudenza per la quale i “valori di riferimento per la liquidazione del danno alla persona adottati dal Tribunale di Milano, dei quali nei fatti è già riconosciuta una sorta di valenza nazionale, possano costituire il valore da ritenersi “equo”, ritenendo come anche da noi richiesto di potersi procedere ad una personalizzazione del danno, che è stato dunque aumentato del 25% “in ragione del cambiamento delle abitudini di vita lavorativa, con specifico riferimento all’effettivo mutamento in pejus del contesto lavorativo, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo”.
(A cura degli avv.ti Francesco Cirillo e Ernesto Maria Cirillo)