Art. 18 e Jobs Act: profili di incostituzionalità e ingiustizia sociale.
A cura dell’avv. Ernesto Maria Cirillo.
Tra i primi due decreti attuativi del Jobs Act, approvati durante le recenti festività natalizie, uno ha riguardato la materia dei licenziamenti.
Sembrerebbe che la nuova disciplina dei licenziamenti non sia applicabile ai lavoratori già titolari di un contratto a tempo indeterminato presso un’azienda con più di 15 dipendenti, ma soltanto ai lavoratori assunti a tempo indeterminato a decorrere dalla entrata in vigore del decreto ovvero a quei lavoratori a tempo indeterminato di un’impresa che passerà dalla tutela obbligatoria (meno di 15 dipendenti) a quella reale (oltre i 15 dipendenti), successivamente alla entrata in vigore del decreto.
Si legge, infatti, all’articolo 1 – Campo di applicazione: ”Per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo è disciplinato dalle disposizioni di cui al presente decreto.
Nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del presente decreto, integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, il licenziamento dei lavoratori, anche se assunti precedentemente a tale data, è disciplinato dalle disposizioni del presente decreto”.
Già solo questa distinzione parrebbe sconfinare nell’incostituzionalità, attesa la ingiustificata discriminazione tra chi già lavora e chi verrà assunto domani.
Altro elemento di novità, per i licenziamenti, riguarda il tentativo di questo Legislatore di ridurre al minimo, sino ad eliminarla nei fatti, la possibilità di reintegra del lavoratore licenziato per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo. L’art. 3 recita: “Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria…”.
In base alla nuova norma, soltanto nel caso in cui, in giudizio, venga direttamente dimostrato che il fatto materiale addebitato al lavoratore, tanto grave da giustificarne il licenziamento, in realtà non sussiste, quest’ultimo potrà essere reintegrato, altrimenti avra’ diritto solo al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro, e non superiore a ventiquattro mensilità.
La novella all’art. 18 della L 300/70 presenta evidenti sintomi di illegittimità costituzionale e di nodi interpretativi che spetterà a giuslavoristi e alla magistratura del lavoro sciogliere.
In primis, bisogna chiedersi: Cosa intende il Legislatore quando dice “direttamente dimostrato”?Cosa succede se nel corso del processo si perviene “indirettamente” a dimostrare che il fatto contestato non sussiste? Il lavoratore verrà reintegrato?
La questione nasce dal fatto che nel nostro ordinamento esistono le prove dirette e quelle indirette, le prime sono idonee a dimostrare immediatamente un fatto senza alcuna operazione logica, viceversa, sono prove indirette, gli indizi. L’operazione logica da operarsi in virtù degli indizi si chiama “presunzione semplice”, si riferisce ad essa l’art. 2727 c.c. disponendo che “le presunzioni sono le conseguenze che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto” che si aggiungono all’interpretazione degli indizi come presunzioni “gravi, precise e concordanti” ex art. 2729.
Altro nodo da sciogliere riguarda l’impossibilità per il giudice di una valutazione secondo equità, in ordine alla sproporzione del licenziamento rispetto ad altre sanzioni conservative quali il richiamo, la multa o la sospensione.
La “proporzionalità” delle sanzioni, infatti, è un principio direttamente desumibile dall’art. 2106 c.c. per cui l’applicazione delle sanzioni disciplinari deve avvenire “secondo la gravità dell’infrazione”.
Volendo applicare letteralmente la norma appena approvata, sembrerebbe non aver diritto alla reintegra, per fare un esempio, il lavoratore cui verrà contestato il ritardo sul luogo di lavoro anche di solo 1 minuto. Infatti, sebbene la sanzione sia evidentemente sproporzionata rispetto all’addebito, il giudice non potrà applicare il principio, costituzionalmente orientato, dell’ equità e proporzione, ma, accertato il ritardo, potrà, al massimo, condannare il datore di lavoro al pagamento dell’indennità.
In tal modo, però, la sanzione risultera’ arbitraria e irragionevole, da qui il dubbio di incostituzionalità della norma in commento.
Parlare di ragionevolezza e di proporzionalità equivale a volersi sostituire al lavoro quotidiano della Corte Costituzionale. I giudizi di ragionevolezza e proporzionalità, infatti, attraversano – esplicitamente o implicitamente – un grande numero di questioni che spetta esclusivamente all’esame della Corte, nell’esercizio della sua funzione.
Ancora, la norma in esame, sembrerebbe ignorare come, almeno nei licenziamenti per giusta causa, il fatto materiale imputabile di per se’, non giustifica il recesso, ma va analizzato ed interpretato alla luce di criteri soggettivi ed oggettivi che devono accertare l’irrimediabile frattura del vincolo fiduciario tra lavoratore e datore.
In particolare, come ha recentemente ricordato la Suprema Corte di Cassazione (s.n. 1459/2011), ai fini della valutazione della legittimità del licenziamento per giusta causa, e’ necessario accertare se, in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso fra le parti, ed alla qualita’ ed al grado di fiducia che il rapporto comporta, la specifica mancanza risulti oggettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da far venir meno, la fiducia che il datore ripone nel proprio dipendente, senza che possa assumere rilievo l’assenza o la modesta entità del danno patrimoniale subito dal datore.
L’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ovvero di un comportamento tale che non consenta la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Altro importante dubbio riguarda il caso in cui la condotta contestata al lavoratore non rientri tra quelle per le quali il CCNL di categoria prevede il licenziamento, bensì una sanzione conservativa. In tal caso, sembrerebbe chiaro che il lavoratore andrebbe, pur in presenza del fatto contestato, reintegrato.
La c.d. Legge Fornero stabilisce che, qualora il fatto contestato e posto alla base del licenziamento sussiste, ma il CCNL di categoria prevede sanzioni di tipo conservativo, il datore di lavoro deve reintegrare il dipendente.
L’ultimo forte presentimento, o quasi certezza, è che il Jobs Act rappresenti l’ennesimo, inutile, sacrificio che i lavoratori saranno costretti a pagare per colpa dell’incompetenza e della presunzione della nostra politica.
Napoli, 03 gennaio 2015
Avv. Ernesto Maria Cirillo