Mobbing e risarcimento: presupposti, danno patrimoniale e non patrimoniale; danno professionale.
Il mobbing costituisce un fenomeno mutuato dalla psicologia e dalla sociologia ancora oggi senza una propria autonoma fisionomia giuridica in quanto di tale istituto non esiste una definizione normativa.
La prima definizione del concetto di mobbing è dello studioso H. Leymann, il quale lo definì come “terrore psicologico sul posto di lavoro”.
Di recente una articolata definizione è stata elaborata dallo psicologo del lavoro H. Ege che lo ha descritto come “… situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario genere“.
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (sentenza del 10 febbraio 2015, Giudice del lavoro dott.ssa Adriana Schiavoni) nel riconoscere la illegittimità del licenziamento, affronta un caso di mobbing esaminando puntualmente i molteplici atti vessatori, posti in danno del lavoratore, dirigente medico di ortopedia.
Il giudice rileva che i comportamenti datoriali descritti sono stati, per sistematicità e vessatorietà, specificamente finalizzati al suo danneggiamento professionale, psicologico e sociale, ed, in ultimo, alla sua definitiva espulsione dall’ambiente lavorativo.
Infatti, il tratto distintivo in ogni fenomeno di mobbing è la ripetitività nel tempo delle condotte e la loro riconducibilità ad identico disegno, quello che ha cioè per oggetto l’esclusione, l’emarginazione del lavoratore. Si precisa, infatti, che non è considerabile mobbing la singola azione, consistente in un unico demansionamento, un trasferimento gravoso, un ordine di servizio umiliante, ma occorre una strategia, un attacco continuato, ripetuto, duraturo.
Sulla base di tali circostanziate premesse riportate in via generale e venendo al caso di specie, il ricorrente ha subito progressivamente un ridimensionamento qualitativo e quantitativo delle mansioni svolte, fino ad essere sostanzialmente privato di tutte le attività rientranti nel profilo della qualifica di appartenenza, ovvero in quella di dirigente medico chirurgo, vedendo pertanto del tutto esautorato il proprio ruolo all’interno dell’amministrazione sanitaria. Il tutto con un progressivo peggioramento delle condizioni di salute dell’istante.
Dalla lettura complessiva delle condotte datoriali è emerso con chiarezza l’intento persecutorio nei confronti del ricorrente: tutti gli atti posti in essere dall’amministrazione si inseriscono infatti in una strategia complessiva diretta all’emarginazione e al definitivo allontanamento del ricorrente dal contesto lavorativo.
Il Tribunale, in merito alla determinazione del quantum debeatur, in presenza di un danno alla persona, riconosce la risarcibilità “di due distinte figure di danno, quello patrimoniale e quello non patrimoniale“.
In particolare il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 ce, la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. 500/1999), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perché tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 15027/2005; n. 23918/2006).
Con precipuo riferimento al danno non patrimoniale, il Tribunale ritiene brevemente di richiamare la lettura, costituzionalmente orientata, data dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 all’art. 2059 ce, completata alla luce della nota decisione delle Sezioni Unite n. 26972/2008.
Ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale, sono, dunque, necessarie, seguendo l’insegnamento delle Sezioni Unite, le seguenti condizioni: a) che l’interesse leso (e non il pregiudizio sofferto) abbia rilevanza costituzionale; b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità, come impone il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.; c) che il danno non sia futile, ma abbia una consistenza che possa considerarsi giuridicamente rilevante.
Venendo alla liquidazione va ricordato che nell’ambito della categoria generale ed unitaria “danno non patrimoniale”, non esistono distinte sottocategorie, ma il riferimento a vari tipi di pregiudizio (danno morale, danno biologico, danno esistenziale, da vita di relazione ecc.. ) viene effettuato solo a fini descrittivi senza implicare il riconoscimento di distinte categorie di danno autonomamente e cumulativamente risarcibile (cfr. Cass. n. 26972/2008).
Il danno non patrimoniale deve essere integralmente risarcito con un sistema in cui si evitino le duplicazioni che impone di ritenere assorbiti nel danno biologico anche il danno morale e tutti i pregiudizi derivanti dall’illecito, sia contrattuale che extra contrattuale.
Quanto al danno professionale può verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità (danno emergente), sia nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno (lucro cessante).
Anche rispetto a tale singola voce di danno – come di ogni altra – grava sul lavoratore l’onere di precisa allegazione, tramite l’indicazione di circostanze specifiche. Nella prova del danno è comunque utilizzabile la prova per presunzioni, valorizzandosi, per tale via, il dato dell’entità del demansionamento, della sua durata, dell’anzianità del lavoratore, elementi questi altresì utilizzabili nella successiva fase della liquidazione.
Nella fattispecie, come si è detto, lo ius variandi esercitato nei confronti del ricorrente, proprio perché ispirato ad una logica persecutoria, ha inevitabilmente comportato una drastica riduzione ed un impoverimento delle mansioni precedentemente espletate, determinando una considerevole dispersione di quel condizioni, abilità ed esperienze che l’istante aveva precedentemente maturato.
Avv. Ernesto Maria Cirillo